Pechino censura il rap

Pechino censura il rap

Il presidente cinese Xi Jinping vuole rendere l’industria dell’entertainament un’emanazione dei “valori socialisti in modo vivido e brillante”. E così vengono banditi da tutti i programmi tv e online “attori con tatuaggi, cultura hip hop, sottoculture e culture decadenti”.

Procede senza sosta la “Rivoluzione Culturale” lanciata tre anni fa dal presidente cinese Xi Jinping con l’intento di rendere l’industria dell’entertainment emanazione dei “valori socialisti in modo vivido e brillante”.Dopo i giochi online, le art performative e le piattaforme di live streaming, stavolta a finire nel mirino sono l’hip pop e le star tatuate. Secondo quanto ordinato venerdì scorso dalla State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television, il ramo del Consiglio di Stato incaricato di amministrare i vari canali mediatici, si “richiede specificamente che i programmi (tv e online) non siano caratterizzati da attori con tatuaggi, cultura hip hop, sottoculture e culture decadenti“.

Più precisamente, come specificato dal capo del dipartimento della Pubblicità — ovvero della propaganda — tutte le programmazioni dovranno seguire la regola dei “quattro no“:

1) Assolutamente non usare artisti il cui cuore e morale non sono allineati con il partito e la cui moralità non è nobile

2) Assolutamente non usare artisti volgari, osceni e senza gusto

3) Assolutamente non usare artisti senza classe o il cui livello ideologico è basso

4) Assolutamente non usare artisti con alle spalle macchie, scandali e problemi di integrità morale

Il divieto sembra confermare quanto suggerito da una recente ondata di epurazioni nel mondo televisivo e dell’altrettanto popolare live-streaming. Sono passati appena pochi giorni da quando il noto rapper GAI (al secolo Zhou Yan) è stato espulso senza preavviso dal programma The Singer, in onda sulla tv dello Hunan e sul canale Youtube dell’emittente. Sorte analoga per l’artista underground Triple H, misteriosamente volatizzatosi dal web, e Vava, icona del rap femminile, rimossa dal varietà Happy Camp a causa della sua militanza nella cultura hip pop.

 

 

Tutto sembra aver avuto inizio ai primi di gennaio, quando l’artista hip pop PG One è stato invitato dalle autorità a chiedere pubblicamente scusa per i contenuti volgari della sua hit del 2015 Christmas Eve. Una canzone accusata di “volgarità” tanto dal popolo della rete quanto dalla Lega della Gioventù Comunista. “I personaggi pubblici su Internet dovrebbero fungere da modello positivo e fornire una guida adeguata agli adolescenti del paese” anziché diffondere messaggi misogini e inneggiare all’utilizzo di droghe, ha spiegato la principale organizzazione politica giovanile della Repubblica popolare cinese che negli ultimi anni si è fatta promotrice della band Tianfu Shibian. Un quartetto di giovani rapper votati alla promozione di messaggi nazionalisti, tanto da essere stati spediti a Woody Island, una delle isole del Mar cinese meridionale contesa tra Pechino, Taipei e Hanoi, per contestare in note la sentenza con cui il tribunale dell’Aja ha rigettato le pretese cinesi nella regione sulla base di presunti diritti storici nel 2016. All’epoca la mossa era stata interpretata come un’appropriazione del popolare genere musicale con fini propagandistici.

Come sottolinea il Global Times, tuttavia, gli eventi degli ultimi giorni gettano ombre sul futuro del rap oltre la Muraglia. Secondo il tabloid in lingua inglese, l’hip hop “è uno strumento per esprimere rabbia, miseria e lamentele” e pertanto “non si adatta alla Cina né vi può prosperare”. Non è la prima volta che Pechino si accanisce contro le performance musicali. Già nel 2015 il ministero della Cultura aveva messo al bando 120 canzoni — per lo più rap — con l’accusa di “promuovere oscenità, violenza, atti criminali o minacciare la moralità pubblica”, mentre lo scorso luglio era stato Justin Bieber, alla viglia della sua tournée asiatica, a vedersi chiudere le porte a causa di “una serie di cattivi comportamenti, sia nella sua vita sociale che durante una precedente esibizione in Cina, causa di malcontento tra il pubblico “.

 

 

In fase sperimentale fin dai primi anni Duemila, è soltanto nel 2017, con la proiezione del reality online The Rap of China, che il genere musicale ha acquisito portata virale oltre la Muraglia. L’abbigliamento sportivo e l’utilizzo delle variazioni regionali del cinese standard — alternate all’inglese — costituiscono i tratti distintivi della nuova cultura “cinese-black” in grado di inchiodare davanti al piccolo schermo tre milioni di spettatori. Comprensibile l’ira dei fan contro il giro di vite messo in atto dal governo. “Regressione” è una delle parole più utilizzate per descrivere la nuova ondata moralizzatrice di Pechino.

“La SARPPFT è così dozzinale! Non ha voluto dare ai cantanti hip-pop cinesi alcuna possibilità di sopravvivere! Torneremo ai tempi antichi”, commenta indignato un internauta su Weibo, il Twitter cinese. “Anche se in parte è spazzatura, l’hip hop di per sé non è sbagliato, il suo spirito è fondamentalmente ancora positivo,” gli fa eco un altro, “l’hip hop è appena emerso e ora viene bruscamente bandito. Non è forse questa una regressione culturale?”

Thanks to: medium.com

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